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Gian Domenico Auricchio: Le lezioni del Covid: sfida green, digitale e nuova responsabilità dell'impresa

Dicono che l'unica costante della vita sia il cambiamento e senz'altro siamo in un momento di grandi trasformazioni. A poco più di un anno da quando il Covid-19 si è diffuso in maniera planetaria ci troviamo in una situazione non dissimile dal punto di vista sanitario, ma molto diversa dal punto di vista delle economie. 

E’ emersa una divaricazione sempre più chiara tra “l'economia delle merci che si spostano” rispetto all’”economia delle persone che si muovono”.

La prima sembra aver ripreso una parte consistente del suo corso. Rispetto alle previsioni drammatiche di un anno fa sul crollo del commercio mondiale (si parlava di un tonfo di oltre il 30%) gli ultimi dati ridimensionano di molto questi timori. In Europa a gennaio 2021 la rilevazione sul clima dei direttori agli acquisti che misura la fiducia nel futuro, raggiunge i 58 punti: il valore più elevato dal febbraio 2018. Lo stesso vale per il commercio estero europeo: a dicembre 2020 nell’area dell’Euro le esportazioni sono aumentate del 2,3 per cento rispetto a dicembre 2019, il primo aumento dal febbraio 2020 e anche il commercio internazionale all’interno dell’Area aumenta di quasi un punto percentuale.

Certo tra le grandi economie europee l’export italiano è diminuito del 10 per cento, molto vicino al 9 per cento della Germania, lo stesso valore della Spagna ma inferiore al -16 per cento della Francia, ma si tratta di valori molto inferiori a quelli temuti nella prima fase della pandemia. E in più ci sono settori in cui le performance sono molto lusinghiere, come l’agroalimentare, campo che ben conosco, dove il 2020 sarà ricordato per la positiva performance esportativa, con 46,1 miliardi di euro realizzati all’estero, un massimo storico.

Tuttavia se guardiamo a larga parte dei servizi le performances sono molto molto peggiori, qui le limitazioni imposte agli spostamenti di persone stanno producendo difficoltà mai sperimentate nelle precedenti crisi, mettendo in ginocchio tantissime attività e compromettendo intere filiere come quella del turismo.

C’è una profonda fase di trasformazione e di cambiamento che trovo ben sintetizzata nelle autorevoli parole del nostro Presidente del Consiglio, quando ha sostenuto nel suo discorso per la richiesta della fiducia alla Camera dei deputati: “Alcuni pensano che la tragedia nella quale abbiamo vissuto per più di 12 mesi sia stata simile ad una lunga interruzione di corrente. Prima o poi la luce ritorna, e tutto ricomincia come prima. La scienza, ma semplicemente il buon senso, suggeriscono che potrebbe non essere così”. Anch’io penso che non sarà più come prima della pandemia!

Come imprenditori questa crisi ci dà una lezione, sintetizzabile in una frase di Kennedy: “Cambiare è la regola della vita. E quelli che guardano solo al passato o al presente, certamente perderanno il futuro”.

L’impresa nasce per guardare al futuro, altrimenti non avrebbe senso. E guardando al futuro questa crisi ci porta a riflettere su due crinali: da un lato la pervasività di quelle che oggi sono definite come le due “transizioni gemelle”, ossia la sfida green e quella digitale, dall’altra la stessa funzione e il ruolo di fare impresa e di essere imprenditore.

Sul primo punto già da alcuni anni ci confrontavamo con la transizione digitale, ma la pandemia ci spinge ad accelerare fortemente, anzi sotto alcuni aspetti a riconfigurare le nostre attività tenendo conto delle possibilità di integrare gli aspetti connessi all’utilizzo delle nuove tecnologie con la tradizionale creatività di trovare soluzioni innovative che è tipica del made in Italy.

Analogamente vale per la sfida verde. Il post-pandemia sarà caratterizzato da una fortissima attenzione per questo tema che sta divenendo sempre più una variabile fondamentale nelle scelte di acquisto dei consumatori (e anche in quelle degli investitori). Ma più in generale si tratta di una sfida di responsabilità per il futuro perché la sostenibilità, non solo ambientale, è uno dei nuovi traguardi sui quali si dovrà misurare anche la legittimità sociale dell’impresa.

Eppure in Italia sappiamo che, in particolare nel segmento di imprese di minori dimensioni, siamo piuttosto indietro al riguardo. Una recente indagine del Centro Studi Guglielmo Tagliacarne ci dice che solo il 6% delle pmi manifatturiere ha realizzato investimenti sia sul versante eco che su quello della digitalizzazione e soprattutto che esiste un 62% che non ha investito né in sostenibilità ambientale né in digitalizzazione e non prevede neanche di farlo a breve. Ma la stessa ricerca rileva una più alta percentuale di imprese che ha investito in entrambi gli aspetti (61%) prevede di ritornare già nel 2022 ai livelli pre-covid rispetto alle altre aziende (55%). Ci sono quindi chiari aspetti di “convenienza” aziendale.

La duplice sfida ambientale e digitale, sotto molti aspetti, non riguarda solo la crescita delle prospettive di business, ma anche una più moderna responsabilità dell’impresa verso gli altri e qui vengo alla considerazione su come il Covid trasforma ruolo e funzioni dell’imprenditore.   

Un imprenditore che crede nella sua impresa ha un’etica che non si consuma nel tempo breve, guarda al futuro: futuro proprio, ma anche futuro di chi lavora con lui. Ecco perché un’impresa che funziona non può essere scissa dalle persone che vi lavorano. Se guardiamo alle realtà più longeve, affermatesi poi nel mondo, vediamo che la concezione vincente è quella di un’impresa molto vicina a una comunità di lavoro.

La forza dell’impresa è anche la migliore garanzia di permanenza e sviluppo delle persone che ci lavorano.

E non si tratta di un’utopia se un grande imprenditore – Michele Ferrero – soleva affermare: “la mia unica preoccupazione è che l’aziendasia sempre più solida e forte per garantire a tutti coloro che ci lavorano un posto sicuro”.

Così etica dell’impresa ed etica del lavoro si incontrano in un progetto di sviluppo condiviso.

Cosa ha cambiato la pandemia Covid-19 in tutto questo? É una riflessione che nei mesi di lockdown mi sono trovato a fare, confrontandomi con la situazione che ci circondava e operando – peraltro – in un contesto geografico (quello lombardo) particolarmente colpito dalla diffusione del contagio.

C’è una responsabilità dell’imprenditore che può andare anche oltre l’azienda? Quando si è in una fase di sviluppo questa riflessione è importante, ma viene sotto molti aspetti sopravanzata dal dinamismo della crescita.

É quando lo scenario intorno a te si ferma che sei indotto a pensare se in qualche modo l’impresa non debba essere ispirata a una logica di servizio rivolta a un più vasto pubblico.

In questa fase, e ritengo per il futuro, significherà sempre più affermare che c’è una responsabilità dell’imprenditore verso la società, contemperando gli interessi dell’impresa con quelli che si chiamano stakeholder: non solo i consumatori, ma anche l’ampio ecosistema in cui operiamo, contribuendo a costruire un ambiente complessivamente più vivibile, anche in termini di sviluppo.

Per fare questo dobbiamo ispirare fiducia, in primo luogo a quanti lavorano in azienda, ma anche a chi ne acquista i prodotti, a chi appartiene all’intera catena della fornitura.

La misura del successo dell’impresa è nel valore del suo brand e il brand si basa sulla reputazione che oggi non è solo fare un buon prodotto, ma farlo in modo ecosostenibile e attento alle esigenze di tutela delle future generazioni.

Ecco perché alla fine il metro su cui misurare una nuova responsabilità imprenditoriale è quello di verificare fino a che punto questa funzione fiduciaria può essere svolta, qual è stato il nostro contributo di sostenibilità anche per il futuro e su questo versante allora le due sfide gemelle del green e del digitale convergono e si fondono in modo di fare impresa e di essere imprenditori su cui saremo sempre più chiamati a misurarci nel futuro.

 

Gian Domenico Auricchio

Imprenditore

Amministratore Delegato della Gennaro Auricchio SpA

 

 

 

 

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